Cenni sul problema critico goldoniano (1952-1953)

Dal terzo capitolo, L’opera di Carlo Goldoni, delle dispense del Corso sul teatro comico del Settecento che Binni tenne all’Università di Genova nell’anno accademico 1952-1953. Redatte dall’autore e pubblicate dall’Istituto universitario di Magistero, le dispense sono costituite da tre capitoli: «La decadenza della commedia dell’arte e i programmi e tentativi di riforma arcadica del teatro comico»; «La commedia del primo Settecento dal Maggi al Nelli»; «L’opera di Carlo Goldoni». Cenni sul problema critico goldoniano apre il capitolo goldoniano; il testo non sarà piú ripreso, a differenza delle altre parti, non solo goldoniane, delle dispense, successivamente rielaborate e ampliate in altre pubblicazioni binniane.

CENNI SUL PROBLEMA CRITICO GOLDONIANO[1]

L’opera del Goldoni stimolò già i propri contemporanei a giudizi e prese di posizione assai indicative soprattutto per collocare, come faremo, il Goldoni in una direzione moderatamente, ma sicuramente innovatrice nella civiltà italiana del Settecento: da una parte la sua opera venne violentemente attaccata dai “conservatori”, dall’altra venne entusiasticamente elogiata dai “novatori” illuministici.

Fra i primi eccezionalmente risoluti nello stroncare le commedie goldoniane furono Carlo Gozzi e Giuseppe Baretti: il primo accusava il Goldoni di immoralità (addirittura “laidezze” ed “equivoci sporchi”), di «insubordinazione ai nobili», e insieme di mancanza di fantasia, di piatta copia della realtà, il secondo all’accusa di immoralità (tanto che nel Discours sur Shakespeare et monsieur de Voltaire lo chiamava «empoisonneur publique») e di predilezione per la «canaglia» (donde l’incapacità di rappresentare il mondo delle classi alte), univa i rimproveri al suo linguaggio plebeo, frettoloso, spropositato e al suo provincialismo che lo avrebbe reso goffo nella rappresentazione di usi ed ambienti stranieri.

Fra i secondi soprattutto Voltaire e Pietro Verri insisterono al contrario sulla naturalezza insuperabile delle commedie goldoniane (il celebre epigramma di Voltaire in cui la natura diceva che tutti gli scrittori hanno dei difetti «mais ce Goldoni m’a peinte»), sulla franchezza e libertà del suo linguaggio moderno e fuori delle pastoie della Crusca, e sulla sua coraggiosa attenzione alla vita del popolo.

Ma accanto alle posizioni piú antitetiche degli avversari e dei fautori della commedia goldoniana (legate inizialmente alle polemiche che lo stesso Goldoni dové sopportare nell’ultimo periodo della sua vita veneziana), non mancano nel secondo Settecento giudizi piú equilibrati di letterati che, fuori della polemica, esprimono la loro viva simpatia per le qualità estetiche del Goldoni, come le sensibili e acute “recensioni” che Gaspare Gozzi scrisse nella «Gazzetta veneta» delle commedie dialettali (Rusteghi, Casa nova, Baruffe chiozzotte), in cui il letterato veneziano sa ben rilevare la capacità goldoniana di far vivere ambienti e personaggi nelle loro varie gradazioni e sfumature, la estrema efficacia del linguaggio dialettale non rozzo e plebeo (come era parso al fratello), ma adeguato alla finezza e concretezza del mondo poetico goldoniano, o come il giudizio del Cesarotti che in una lettera al Van Goens sottolineava la singolare riuscita dei “tableaux” di vita borghese e popolare, aggiungendo però, con un accostamento sempre pericoloso per l’arte del Goldoni, che se questi avesse avuto «tanto studio quanta natura, se scrivesse piú correttamente», con meno fretta, avrebbe potuto «contrapporsi a Molière».

Questi limiti accennati dal Cesarotti (fretta, abbondanza eccessiva di produzione) furono poi giustificati positivamente da Gherardo De Rossi che, nel suo libro sul Teatro comico italiano (Bassano, 1794), li considerava come effetto di una esuberante spontaneità, di un singolare e geniale fervore creativo che rendeva necessaria alla sua arte la stessa apparente trascuratezza linguistica. Ed invitava, per primo, a studiare le commedie goldoniane nel loro svolgimento, in una storia di fasi e maniere diverse, puntando su quelle “tabernarie” (commedie veneziane) in cui vedeva espresso piú limpidamente il mondo poetico del suo autore.

L’Ottocento romantico non partí però da queste importanti intuizioni, da questa valutazione positiva, ed anzi risentí fortemente delle accuse barettiane e gozziane (si pensi del resto come questi “conservatori” fossero ricchi – specie il Baretti – di spunti preromantici) e – se si esclude il giudizio di simpatia del Carrer nella sua vita del Goldoni del 1824, legata ancora a motivi settecenteschi e alla lontana influenza di Gaspare Gozzi – i critici e romantici europei, dallo Schlegel al Sismondi, furono concordi nel negare al Nostro vera ricchezza di fantasia, di solido mondo morale e ideale, rimproverandogli la sciatteria della lingua o addirittura, come fece il Sismondi, legandolo alla presunta decadenza morale italiana nel Settecento e misconoscendo persino quell’attenzione alla realtà che essi scambiarono con descrittivismo minuto e impoetico.

Né questa posizione cosí fortemente limitativa fu superata interamente dallo stesso De Sanctis il cui giudizio rimarrà sempre (specie nell’aggravamento della conferma crociana)il piú forte ostacolo ad una piena comprensione della poesia goldoniana.

Il De Sanctis nel capitolo “La nuova letteratura” della sua Storia della letteratura italiana (1871) seppe valutare positivamente l’importanza del Goldoni nella ripresa della letteratura italiana nel Settecento, riconoscendo a quello che chiamò «il Galileo della nuova letteratura» un acuto, nuovo senso della realtà, un’osservazione della realtà che mancava all’Arcadia e una concezione nuova e immanentistica della vita non come «gioco del caso o di un potere occulto, ma quale ce la facciamo noi, l’opera della nostra mente e della nostra volontà»[2].

E, in questa prima parte del suo giudizio, cosí importante e positiva, trovava che questo senso di osservazione, questo concetto della vita erano stati tradotti concretamente in un programma di riforma che egli anzi vede, con molta esagerazione, chiaro e formato sin dall’inizio dell’attività goldoniana.

Ma è a questo punto che il giudizio si fa negativo, perché per il De Sanctis questa riforma, cosí chiara nella sua mente, non venne attuata dal Goldoni per mancanza di coraggio, di energia morale, di profonda serietà, di un mondo ideale preciso e saldo.

E poiché il De Sanctis attribuiva al Goldoni l’intenzione e la missione di darci una compiuta commedia di “carattere”, la constatazione che le sue commedie non hanno in quel senso la profondità di quelle di Molière portava a qualificare l’applicazione concreta della sua riforma come un insuccesso.

E, malgrado il riconoscimento di tante particolari qualità felici della commedia goldoniana, il grande critico concludeva severamente notando come quel mondo poetico fosse superficiale, esteriore (e la sua espressione, alla fine, negligente e volgare), senza profonda ironia e senza «quella divina malinconia, che è l’identità del poeta comico» sí che il Goldoni, che come Metastasio era «artista nato», non giunge per lui alla vera dignità del «poeta».

A questo giudizio, che ha continuato un po’ sempre a gravare sulla figura del Goldoni in tutta la critica moderna, e che tuttavia contiene spunti notevoli e positivi nella collocazione storica del commediografo nella civiltà settecentesca, succede un periodo in cui, piú che di vera critica si deve parlare di studi goldoniani (soprattutto edizioni, contributi biografici e storici) legati all’impulso erudito e storico della cultura positivistica e favoriti, nel caso particolare del Goldoni, da una simpatia, per l’uomo e il commediografo, coerente agli indirizzi del realismo, del teatro veristico e regionale-dialettale (si pensi alla stessa ripresa di teatro veneziano con il Gallina) che consideravano Goldoni come precursore e ne risollevavano la fortuna teatrale con un rinnovato fervore di rappresentazione, con attori specializzati come lo Zago, e con una nuova valutazione di quella attenzione alle scene di vita borghese e popolare che il romanticismo aveva cosí poco apprezzato.

In realtà la nuova fortuna di Goldoni tra la fine dell’Ottocento e il primo decennio del nuovo secolo non portava un contributo serio allo sviluppo del problema critico goldoniano, ché la simpatia dell’epoca positivistica e veristica finiva per ridurre la figura del Goldoni a quella di un bonario e mediocre “papà Goldoni”, al “caro genio domestico” di un regionalismo e campanilismo veneziano angusto e mediocre, a un piccolo realista, a un pittore accurato e festoso di quadretti familiari quale poteva interpretarlo l’impressionismo musicale, provinciale e gretto di un Wolf-Ferrari.

E la stessa esaltazione poco discriminata dell’opera goldoniana, della sua “naturalezza”, del suo sorriso “paterno” e “veneziano”, mentre falsava la natura piú complessa e seria di un’arte cosí ricca e squisita, mancava di un appoggio critico e non riusciva a spostare i termini sostanziali del giudizio desanctisiano.

E perciò i risultati migliori di questo amore dell’ultimo Ottocento non furono gli scarsi tentativi di giudizio e di ricostruzione (riassunti nel libro di uno dei migliori specialisti di Goldoni, Giuseppe Ortolani, La vita e le opere di Carlo Goldoni, Venezia, 1907), ma piuttosto nei numerosi studi eruditi, biografici e storici di quel periodo: dalle nuove cure editoriali delle opere goldoniane (le Lettere a cura di Ernesto Masi, i Mémoires a cura di G. Mazzoni, e soprattutto la monumentale edizione delle Opere intrapresa nel 1907 dal Municipio di Venezia e curata con grande copia di informazione da famosi goldonisti veneziani: Musatti, Maddalena e lo stesso Ortolani, cui si deve la piú recente edizione mondadoriana, giunta ora con il vol. 12° quasi al suo termine), agli studi biografici cosí importanti di E. von Löhner (Goldoni e le sue memorie, in «Archivio veneto», 1882) e di altri specialisti, culminati nella biografia del Chatfield-Taylor (New York 1912, e traduzione italiana, Bari 1921).

E si aggiungano i numerosi studi di questo periodo sulla relazione fra Goldoni e l’ambiente veneziano del suo tempo, che, se pure inficiati dalla loro impostazione deterministica (spiegare un poeta con le condizioni del tempo e dell’ambiente) e da una visione storica del Settecento e della “decadenza” veneziana quanto mai discutibile (Goldoni è legato non alla decadenza della vecchia repubblica e solo all’aspetto festaiolo e frivolo della Venezia dei celebri carnevali internazionali, ma ben piú saldamente alla vitalità della attiva borghesia veneziana e del popolo a cui egli guardò con attenzione profonda, né vanno trascurati i motivi nuovi e fecondi della generale civiltà settecentesca a cui egli fu aperto e che tanta importanza avevano nella stessa vita veneziana piú ricca e complessa di queste rappresentazioni troppo pittoresche), furono utili per l’affermata esigenza di storicizzazione dell’opera goldoniana e per la raccolta di dati tuttora utilizzabili.

E fra questi ricorderemo Pompeo Molmenti, Carlo Goldoni e Venezia, Venezia, 1880; Ferdinando Galanti, Carlo Goldoni e Venezia nel secolo XVIII, Padova 1882; Vittorio Malamani, Il Settecento a Venezia, Torino 1890-1892 (libro ingenuissimo, ma utile raccolta di canzonette veneziane popolari e letterarie la cui efficacia fu certo originalmente sentita dal Goldoni nella composizione dei suoi Intermezzi delle sue commedie veneziane)[3]; e quegli studi di scrittori stranieri che tanto contribuirono a creare il mito di una totale “venezianità” dell’opera goldoniana e il relativo mito di una Venezia tutta teatrale (ricca di vita teatrale e teatro vivente essa stessa) che passerà piú tardi negli studi del D’Amico e,in parte, dello stesso Rho: la parte sul Goldoni nell’incantevole libro Il Settecento in Italia della Violet Page (Vernon Lee) del 1880; il libro di C. Rabany, Goldoni et le théâtre et la vie en Italie au XVIIIe siècle, Paris, 1896 e soprattutto il libro di Ph. Monnier, Venise au XVIIIe siècle,Paris 1906, particolarmente suggestivo nella sua brillante ed impressionistica (ed anche troppo brillante e, in certo modo, romanzata in maniera decadentistica) ricostruzione dell’ambiente veneziano lieto e vitale artisticamente fra le feste, i carnevali, l’allegria e la musicalità del linguaggio popolare, la vita dei sette teatri (quando a Parigi ce n’erano due o tre), la vita musicale e pittorica (Buranello Galuppi, Vivaldi e i Tiepolo, i Longhi, Guardi, Carriera ecc.) concorrenti in un fervore di spontaneità artistica, di letizia creativa (ma, al solito, bagliore di un’epoca di decadenza) di cui il Goldoni sarebbe stato naturale, istintivo specchio («miroir de l’époque merveilleuse»).

Ma un nuovo periodo per il problema critico goldoniano comincia solo con il rinnovamento dell’estetica idealistica che portò a nuovi studi sulla posizione del Goldoni nella cultura e nel teatro settecentesco e soprattutto a nuove valutazioni direttamente critiche: fra i primi notevoli quelli di Maria Ortiz e di Olga Marchini-Capasso, fra le seconde soprattutto i vari saggi goldoniani del Momigliano.

Gli studi della Ortiz (La cultura del Goldoni, in «Giornale storico della letteratura italiana», 1906, e Il canone principale della poetica goldoniana in «Atti dell’Accademia di Archeologia» ecc., Napoli 1905) sono piú importanti per gli stimoli rinnovatori che per le conclusioni troppo rigide: cosí, buona è la volontà di uno studio piú attento della cultura goldoniana assai limitata, ma esagerata la conclusione che, per rilevare la novità e spontaneità del poeta, limita troppo i suoi innegabili rapporti con la cultura arcadica e con il suo programma di riforma, e cosí il suo studio dei rapporti di Goldoni con la commedia dell’arte (ottima la constatazione della separazione del teatro comico arcadico dal vero pubblico dominato ancora dai comici di professione e conquistato solo dal Goldoni) è molto efficace a rompere un vecchio schema scolastico (Goldoni che uccide la commedia dell’arte «ebra vecchiarda» secondo le note parole carducciane, riformatore risoluto e chiarissimo nel suo programma, come lo vide anche il De Sanctis), e a suggerire una considerazione piú cauta della “riforma” goldoniana, ma (come lo studio della Marchini Capasso, Carlo Goldoni e la commedia dell’arte, Bergamo, 1907 e Napoli, 1912, per me assai piú debole e superficiale nella sua rigida tesi di un Goldoni continuatore e realizzatore dei principi essenziali della commedia dell’arte) finisce per disconoscere quanto seriamente il Goldoni sentisse il suo distacco dalla commedia dell’arte e non solo dal secentismo (come l’Ortiz vorrebbe provare sulla base del Teatro comico), e finisce per appoggiare involontariamente una pericolosa tendenza a riportare Goldoni nel bozzolo da cui era uscito, a sentire Goldoni in termini di commedia dell’arte, donde anche – per un’interpretazione piú di uomini di teatro che di critici – l’esagerata fortuna di commedie come Il servitore di due padroni, sul cui metro venne storpiato Goldoni in forme di balletto e di ritmo mimico o furono trascurate le sue opere piú mature e poetiche.

Attilio Momigliano invece non si occupò della cultura o della posizione del Goldoni nel teatro settecentesco (e semmai affermò una parte delle nuove tesi sui rapporti con la commedia dell’arte, vedendo i residui di questa nell’opera goldoniana in coincidenza con i lati deteriori dell’ispirazione goldoniana), ma si volse direttamente allo studio e al giudizio del commediografo veneziano (e il primo pregio di questi saggi è proprio il diretto, personale contatto con i testi che era proprio di quel critico cosí schietto e originale).

Il Momigliano mosse da alcuni saggi usciti fra il 1904 e il 1907 su singole commedie (Il Bugiardo, Truffaldino e Smeraldina nel Servitore di due padroni, Il Campiello) e raccolti nel 1922 (Firenze, Primi studi goldoniani), e attraverso una lettura attenta e vasta giunse, in un articolo del 1907, Il mondo poetico del Goldoni (in «Italia moderna»), a un’interpretazione piena di simpatia per il Goldoni «poeta nato», per il suo mondo di grazia e di finezza, popolato di figure leggere, ma delineato con arte profonda.

Ma nel saggio del 1912 (I limiti dell’arte goldoniana, in Scritti vari in onore di R. Renier, Torino) il critico sembrava risentire piú profondamente del giudizio desanctisiano (con cui il primo articolo appariva almeno parzialmente in polemica) e sulla base di una conoscenza minuziosa delle diverse commedie minori mirava a distinguere (in maniera poco persuasiva però) un Goldoni maggiore e un Goldoni rivelante limiti molteplici di grossolanità, di retorica, di ripetizione di luoghi comuni, di caricatura esagerata, di fretta e sciatteria espressiva in cui alcuni lati della sua natura già disposti a tali tendenze avevano piú facilmente risentito dell’influenza negativa della commedia dell’arte.

In realtà il Momigliano finiva per investire con tali limiti tutta l’opera del Goldoni, a riportare in essere gran parte delle accuse romantiche e desanctisiane (mancanza di ideali ecc.) e soprattutto commetteva un vero e proprio errore di metodo quando esaminava senza alcuna distinzione cronologica opere di vari periodi dello sviluppo goldoniano: sicché in una diversa prospettiva di svolgimento molti di quei “limiti”, attribuiti all’opera goldoniana in genere, sarebbero da calcolare piú giustamente come caratteristiche di momenti piú giovanili o di fasi particolari superate nei risultati piú alti della maturità, o come effetti di inevitabili cadute in un’opera tanto varia, in un’attività sollecitata, ma anche resa spesso frettolosa, poco meditata, da impegni pratici, da scadenze di consegna.

Nel terzo saggio del 1913 (La comicità e l’ilarità del Goldoni, in «Giornale storico della letteratura italiana») il critico ritorna, dopo la constatazione dei limiti (che pure portava a tante fini osservazioni, a tanti preziosi giudizi su singole commedie), a tentar di centrare il valore del mondo goldoniano rilevandone il sorriso (anzi «miniatura di sorriso»), la ricchezza di sfumature, il ritmo sicuro e musicale, ma insieme ancora una volta mostrando una certa fondamentale esitazione fra l’intuizione positiva della poesia goldoniana e l’impressione negativa di una personalità poco profonda, di una mancanza di ideali e di vera intimità che si può avvertire anche nella sua formula conclusiva:«poeta grande quando seppe fare con arte profonda un’introspezione superficiale»: quasi un’esitazione fra “poeta” e “artista” nel senso desanctisiano di queste due parole, un’incertezza nel riconoscere la particolare profondità non solo di arte, ma di poesia, di un mondo vivo di motivi validi ed intensi, di una poetica, originale simpatia per la vita degli uomini, per il ritmo vitale nel concreto limite della realtà amata e goduta poeticamente.

Dopo i giudizi del Momigliano (tanto ricchi e importanti pur in una loro mancanza di finale decisione e nella loro mancanza di considerazione storica dello svolgimento goldoniano[4]), il problema critico goldoniano non venne sostanzialmente spostato dal saggio di E. Levi, La realtà poetica del mondo goldoniano (introduzione ad una scelta di diciannove commedie, accompagnate ognuna da un acuto esame particolare, Milano, 1925), ricco di osservazioni utilissime, ma troppo psicologico e fermo a distinzioni di “carattere” («vizioso», «virtuoso» e «ridicolo», nel quale ultimo il Goldoni sarebbe unicamente riuscito), mentre tentativi piú impegnativi son quelli dell’Apollonio e del Rho, accomunati da una maggiore attenzione alla tecnica teatrale del poeta studiato, ai suoi rapporti con i problemi del teatro settecentesco (commedia dell’arte, melodramma ecc.), ai modi dell’espressione comica; attenzione sollecitata anche da un nuovo amore di registi e uomini di teatro che sentirono Goldoni non piú sulla direzione ottocentesca del realismo quanto nella direzione nel “teatro puro”, del ritmo teatrale, dello spettacolo, cui si ispirò ad esempio la celebre regia del Reinhardt del Servitore di due padroni e che permise la nuova valorizzazione di opere come La figlia obbediente[5].

Questa nuova attenzione, importante per un esame piú intenso dell’opera goldoniana nel suo valore teatrale e per una sua liberazione dalla misura ottocentesca del pittore di realtà, del piccolo realista bonario e provinciale (e che d’altra parte implicava nelle sue applicazioni esterne una pericolosa falsificazione del mondo poetico goldoniano riportato a volte alle condizioni della commedia dell’arte, in una specie di cammino a ritroso assolutamente inaccettabile), anima la monografia di M. Apollonio (L’opera di Carlo Goldoni, Milano, 1932) che studia assai bene l’uomo di teatro e si preoccupa di stabilire fasi dell’arte goldoniana (anche se troppo legate a vicende esterne), a segnare caratteri comuni di gruppi di opere (e di tutte egli dà poi un breve giudizio assai stimolante, anche se spesso inficiato di istruzioni moralistiche, o di esasperazioni intellettualistiche, tipiche di quel critico) con una lezione essenziale di ricostruzione dello svolgimento dell’opera goldoniana.

Ma nell’Apollonio rimane inespresso un giudizio centrale e a questo invano aspirò l’altro saggio di E. Rho, La missione teatrale di Carlo Goldoni, Bari, 1936 (preceduto da un saggio, Il tono goldoniano, uscito nella «Nuova Antologia» del 1933).

In questo volumetto, ardito e impegnativo, il Rho volle valutare l’opera goldoniana dal punto di vista della “missione teatrale” e del risultato teatrale (sotto la suggestione delle teorie del “teatro puro”) di un Goldoni, spontanea voce della Venezia teatrale (sotto la confessata suggestione del Monnier[6]) e creatore di opere valide sí per la vita che esprimono, ma soprattutto per il loro puro ritmo, per i loro valori artistici puri per adeguare i quali il Rho adopera termini mutuati dal linguaggio delle arti figurative e della musica (ed è questa l’epoca in cui piú si cerca di definire il tono goldoniano e si parla di Mozart come termine di paragone piú vicino).

In realtà il Rho sentí il bisogno di dare un concreto sostegno poetico e umano alla sua valutazione di ritmo e di musica, ma è proprio qui che si rivela la debolezza del suo libro cosí utile a staccare Goldoni dalla semplice interpretazione psicologica e realistica, ma incapace di cogliere il nucleo poetico che si esprime nell’opera goldoniana: sicché alla fine, per le commedie maggiori si ricorre alla vecchia formula di “papà Goldoni” mentre per storicizzare l’opera e l’esperienza goldoniana non solo in confronto a pittori e musicisti del tempo il Rho ricorre a una generica collocazione del suo autore fra Arcadia e illuminismo, giusta, ma non approfondita e precisata come invece aveva fatto con molta finezza lo storico Nino Valeri nel suo articolo del 1931 su «Civiltà moderna», Intorno al Goldoni, parlando per l’atteggiamento del Goldoni di un illuminismo popolare sinceramente e validamente sentito e affermato nella sua fiducia civile, nel suo spirito aperto e libero pur nella sua prudenza, nella sua mancanza di combattività esplicita.

Alla valutazione del Rho si oppose risolutamente il Croce in una postilla del volume La poesia e in una recensione («La Critica», 1937), riprovando la trasposizione arbitraria di canoni e termini dalle arti figurative e dalla musica alla poesia, ma anche negando, proprio di fronte a una esaltazione cosí ammirativa come quella del Rho, il valore poetico dell’opera goldoniana.

Era la ripresa risoluta e piú dura della limitazione desanctisiana e l’applicazione recisa della sua distinzione tra poesia e letteratura: letteratura l’opera goldoniana, letteratura quelle commedie «deliziose», ma superficiali, espressione di un animo poco profondo e cosí diverso da quello malinconico e complesso del Molière. Vero è che il giudizio crociano ha l’aria di un giudizio poco meditato ed espresso in uno scatto polemico piú che derivato da un apposito studio, ma resta sempre grave questa incomprensione in cui il Croce (che seppe sentire la “poesia” di tanti piccoli autori del Settecento e dell’Ottocento) confermava con la sua autorità il giudizio desanctisiano.

Reagí all’evidente ingiustizia della svalutazione crociana, pur rimanendo nel metodo crociano storicistico e anzi avvalendosi della distinzione poesia-letteratura, un giovane scolaro della Normale di Pisa, Enzo Gimmelli, che nel 1941, in un vivacissimo saggio, La poesia di Carlo Goldoni, riprendendo l’esigenza di uno studio dell’opera goldoniana sul suo svolgimento, distingueva un periodo di “letteratura” e un periodo (quello del ’59-62 fra il ritorno da Roma e la partenza per Parigi) di vera poesia: la “poesia” di Venezia e del “piccolo mondo antico” veneziano a cui il Goldoni guarderebbe con nostalgia e con la malinconia del prossimo abbandono dell’amata città: che era un modo (secondo me non necessario, come dirò a suo luogo) di rispondere al Momigliano e soprattutto al Croce: limiti sí, ma nel primo periodo, letteratura sí ma non nell’ultimo periodo veneziano in cui la poesia sarebbe assicurata proprio da una vena di quella malinconia la cui mancanza per De Sanctis e Croce aveva sanzionato la limitazione del Goldoni ad “artista”, a “letterato”, non “poeta”.

Non vi sono state poi altre posizioni critiche importanti e le pagine del Sapegno o del Flora nelle loro storie letterarie non rappresentano che armoniche sintesi delle posizioni piú recenti, mentre da un punto di vista di storia della cultura va calcolata la collocazione che Mario Fubini (nel saggio Arcadia e Illuminismo in Problemi e orientamenti critici di lingua e di storia della letteratura italiana, Milano, 1949) fa della riforma goldoniana in relazione alla generale riforma arcadica “del buon gusto”, ma in una fase piú avanzata della civiltà settecentesca.

Solo mi sembra notevole e stimolante un recentissimo e breve saggio di Elio Vittorini, introduzione ad una raccolta di quaranta commedie goldoniane uscita a Torino, Einaudi, alla fine del 1952 (e apparso a parte nel «Mondo» del novembre dello stesso anno). L’interpretazione del Vittorini (interessante anche come testimonianza della vitalità di Goldoni agli occhi di un letterato cosí spregiudicato ed antiaccademico come Vittorini) parte da un vecchio paragone (Ernesto Masi, Carlo Goldoni e Pietro Longhi, in Studi sulla storia del teatro italiano nel secolo XVIII, Firenze, 1891) dell’arte del Goldoni con la pittura di Pietro Longhi, accomunate da una simile attenzione alla realtà del loro tempo, alla vita, alle cose degli uomini, ma di questo paragone[7] egli si serví soprattutto per notare le differenze fra i due artisti e l’originalità del Goldoni che in questa attenzione supera ogni ottocentesca formula di specchio della realtà, di descrizione veristica, in quanto l’attenzione si fa profonda simpatia, profondo rispetto ed affetto e l’osservatore diviene poeta di una realtà tutta umana, di una società in movimento di cui il Goldoni seguirebbe i cambiamenti di costume come prova di quella libertà e spontaneità che tanto egli amava.

La rappresentazione goldoniana degli uomini (priva di ogni legame metafisico e trascendente, spontaneamente laica) supera giustamente per Vittorini ogni semplice descrittivismo veristico, il teatro diviene una vera e propria “commedia umana” animata da una partecipazione, da una adesione personale e profonda da parte dell’autore.

Si tratta naturalmente di una interpretazione sommaria e non priva di lati un po’ dilettanteschi, di forzature da parte del romanziere del nostro tempo, del suo ideale di una società totalmente libera e mondana, che richiederebbe un piú accorto e controllato approfondimento storico, un migliore accertamento della posizione goldoniana nella sua prudenza, nella sua raffinata grazia settecentesca, nei suoi legami non interrotti con la base letteraria arcadica ecc., ma, di fronte a certi eccessi di interpretazione troppo musicalistica e formalistica, questo saggio del Vittorini mi sembra davvero stimolante in vista di nuovi studi che tengano anche conto di certe nuove esigenze teatrali che all’eccessiva tendenza a presentare Goldoni in termini di balletto, di ritmo mimico (come quella ricordata del Reinhardt) contrappongono, come la recente regia della Locandiera di Luchino Visconti, una recitazione sciolta, naturale, realistica (a sua volta non priva di tendenziosità, specie se si volesse applicare a tutto Goldoni e alle sue opere piú ricche di sfumature, di grazia settecentesca, di lieve ritmo piú volontariamente stilizzato).


1 Per un’informazione piú larga sulla storia della critica goldoniana e per la relativa bibliografia rinvio al saggio di F. Zampieri nel n. 1-2 della «Rassegna della letteratura italiana». Si possono vedere anche i brevi profili di storia della critica nei libri di E. Rho, La missione teatrale del Goldoni, Bari, 1936, e di E. Gimmelli, La poesia del Goldoni, Pisa, 1941, e il capitolo del recente Repertorio bibliocritico della letteratura italiana, di P. Mazzamuto (Firenze, 1953), esposizione di giudizi con scarsa prospettiva storica e scarso impegno critico.

2 F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, Bari, 1949, II, p. 366.

3 Piú tardi ad una relazione fra Goldoni e il teatro veneziano popolare dedicò uno studio E. Re in «Giornale storico della letteratura italiana», 1911. E del teatro veneziano nel ’700 si occupò A. Zardo nel volume omonimo, Bologna, 1925.

4 E il Momigliano diede poi ottime letture e commenti di commedie goldoniane nella sua scelta Le opere di Carlo Goldoni, Napoli, 1914, e finissime pagine scrisse ancora sul Goldoni nella sua Storia della letteratura.

5 Era questo un effetto della stessa tendenza che aveva portato il Mic alla limitazione di Goldoni come piccolo borghese «plein de bon sens» e che ora invece permetteva di vedere anche in lui qualità, fino allora poco osservate, di ritmo mimico e scenico, di puro movimento teatrale.

6 Il mito della Venezia teatrale e del “teatro puro” in Goldoni ritorna anche piú appesantito nelle pagine di S. D’Amico (Storia del teatro drammatico, III, Milano, 1938) che addirittura parla di personaggi «che chiedono di essere prima teatro e poi vita».

7 Vittorini aveva fatto un simile paragone fra l’Ariosto e i pittori ferraresi (introduzione all’Orlando Furioso, Torino 1950), ma ne fu rimproverato soprattutto da E. Cecchi come per un paragone esteriore ed astratto.